Gruppo Mani Tese di Roma - roma@manitese.it

giovedì 1 ottobre 2009

Il blog trasloca!

Il blog di Mani Tese Roma cambia casa: ci trasferiamo sul nuovo sito ufficiale di mani Tese, che ha ora uno spazio dedicato a noi!

Ecco il nostro nuovo indirizzo:

http://www.manitese.it/roma/

venerdì 12 giugno 2009

CASCA IL MONDO…TUTTI GIU’ PER TERRA? - Teatro e partecip-azione

Il Gruppo Mani Tese di Roma, ATTAC Roma e La Città dell’Utopia

presentano

CASCA IL MONDO…TUTTI GIU’ PER TERRA?
Una serata di teatro e partecip-azione

18 giugno 2009 - ore 19.30
La Città dell’Utopia
Via Valeriano 3F
(Metro San Paolo)


CRISI FINANZIARIA? CRISI ECONOMICA?
CRISI ALIMENTARE?
ESISTE UNA VIA D’USCITA?

Sperimentiamo insieme le diverse possibili soluzioni giocando con il teatro. Attori e pubblico si confronteranno fino a confondere i propri ruoli: gli spettatori faranno sentire la propria voce intervenendo sulla scena e trasformandosi in spett-attori.
La serata proseguirà con un aperitivo a sottoscrizione…

Vi aspettiamo!!!!




Per qualsiasi informazione:
Valentina Puglisi
Mani Tese Roma
329 4147353

venerdì 15 maggio 2009

Nuovo appuntamento con il mercatino dell'usato!

Domani sabato 16 maggio, e domenica 17, torna il mercatino dell'usato di Mani Tese!
Dalle 9 alle 19 in Piazzale Flaminio troverete una ricca selezione di abbigliamento primavera-estate presentata dai volontari manitesini!
Il ricavato ci aiuterà a sostenere il progetto in Bolivia e ad organizzare il nostro campo estivo di studio e lavoro. Vi aspettiamo!

martedì 12 maggio 2009

Torna il campo di Roma!

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Dopo il successo dell'anno scorso, torna anche quest'anno il campo di Roma!
Dal 27 luglio al 4 agosto raccoglieremo materiale usato da rivendere nella nostra tenda dell'usato (nella foto la tenda dell'anno scorso, a Piazza Risorgimento).

La parte di studio del campo proseguirà la riflessione iniziata con i tre incontri del Percorso Terra; nel contesto della crisi economica, finanziaria e alimentare ripartiamo dalla risorsa terra: confronto tra modelli agricoli, la finanza che non porta sviluppo, terra e territorio.

per informazioni: roma@manitese.it - referente Valentina
Il campo sostiene il progetto 2164 in Bolivia

Campi estivi!

campiMT


Mancano due mesi all’inizio dei campi di studio e lavoro... è quindi il momento di presentarvi date, luoghi e argomenti dei campi di quest'anno:


Gorgonzola (MI)

Non siamo noi razzisti, sono loro che….

18 Luglio >>26 Luglio


Finale Emilia (MO)

Scariolanti cercasi: dalle società di mutuo soccorso all’economia solidale

1 Agosto>>9 Agosto


Vicchio di Mugello (FI)

Metti in crisi la crisi

20 Agosto>> 30 Agosto


Roma

Casca il mondo...tutti giù per terra?

27 Luglio>> 4 Agosto


Verbania

Siamo tutti squilibrati

4 Agosto>> 18 Agosto


Faenza (RA)

Ma che “razza” di discorsi sono?

21 Agosto>>30 Agosto


Bulciago (LC)

Campo di permanenza temporanea, Storie di muri e migrazioni

31 Luglio>>10 Agosto


Rivoltella (BS)

Altri stili, altre menti, altrimenti…..

8 Agosto>> 16 Agosto


PER LE FAMIGLIE

Vicenza

16 Agosto>> 23 Agosto

Vicchio di Mugello (FI)

23 Agosto>> 30 Agosto



Durante i campi si raccoglie materiale usato ma ancora in buone condizioni, da rivendere in un mercatino dell'usato, ospitato generalmente in una tenda in una piazza centrale della città.
Il ricavato andrà a sostenere economicamente un progetto di Mani Tese in Asia, in Africa o in America Latina.

Inoltre ogni campo individua un argomento da approfondire, dibattere e presentare all'opinione pubblica con l'aiuto di esperti sul tema.

In molti Paesi, dal Brasile alla Cambogia al Burkina Faso, Mani Tese realizza progetti di cooperazione in cui sono protagoniste le comunità locali. In Italia, invita i giovani ad essere protagonisti del proprio ruolo nell'attuale modello economico, e a interrogarsi sulle conseguenze dell' espansione illimitata dei consumi.

ISTRUZIONI PER L'USO:
• ai campi possono partecipare tutti i ragazzi dai 18 ai 30 anni
• per iscriversi è necessario compilare la scheda di pre iscrizione: le iscrizioni si chiudono 15 giorni prima dell’inizio de campo scelto
• la quota di partecipazione a copertura delle spese generali di gestione del campo e di assicurazione è di 50 euro e servirà per formalizzare l’iscrizione
• i partecipanti sono coperti da assicurazione infortuni e verso terzi per tutta la durata del campo
• le spese di viaggio sono a carico dei partecipanti

per informazioni:
Campi estivi 2009
Dove e quando
Scheda di iscrizione



mercoledì 8 aprile 2009

Terzo incontro: CASCA IL MONDO...TUTTI GIU’ PER TERRA?

Terra è libertà. Appartenenza e inclusione territoriale.
1 APRILE 2009
Relatore: Aldo Zanchetta (Fondazione Neno Zanchetta)

Dopo aver guardato alla terra come fattore di produzione (incontro del 17 marzo 2009: Il cibo che non sfama: scarsità o ingiustizia? Chi ingrassa con la crisi alimentare) e alla terra come spazio fisico sul quale insistono modelli di sviluppo aggressivi e fallimentari (incontro del 24 marzo 2009: Crescita a quale costo? La finanza che non porta sviluppo), consideriamo oggi la terra in una prospettiva diversa: la terra come territorio. Un tentativo, il nostro, di superare la concezione “strumentale” della risorsa per riflettere sulle complesse relazioni che ci legano ai luoghi nei quali viviamo.
L’uomo si sta rendendo responsabile della creazione di rischi globali di portata più che drammatica. La crisi economica e quella ambientale, due facce della stessa medaglia, sembrerebbero porre in maniera non più rimandabile la questione della limitatezza e della salvaguardia delle risorse del pianeta, eppure l’euforia produttiva e consumistica non frena la sua folle corsa. Prendendo in prestito ad un’ecologista inglese questa suggestiva immagine, si potrebbe pensare alla terra come ad una capsula spaziale, con i suoi abitanti, le sue riserve di cibo, acqua, il problema dello smaltimento dei rifiuti: è evidente che le risorse devono essere gestite in modo razionale, tutelate e non sovrasfruttate. Il bacino acquifero Guaranì, la terza maggiore riserva di acqua dolce del mondo, inizia a presentare problemi di inquinamento, in alcune zone del mondo gli uomini e le donne si riproducono con sempre maggiore difficoltà, abbiamo costruito armi atomiche in grado di sterminare 50 volte l’umanità intera, le radiazioni nucleari sono causa di malformazioni e morte in molti luoghi del pianeta…in questo contesto, non è solo una provocazione domandarsi se gli esseri umani stiano andando incontro all’autodistruzione. Se l’uomo scomparisse dalla faccia della terra? E se ciò accadesse nei prossimi 100 anni?
Trovarci oggi sull’orlo del baratro rappresenta forse un’opportunità unica e straordinaria di cambiamento radicale: dovremmo mettere in discussione la nostra stessa mentalità, il modo di concepire la nostra presenza sul pianeta. L’economia e l’industria nella fattispecie, che dovrebbero contribuire a migliorare la qualità della vita in quanto “sistemi” creati dall’uomo, hanno finito per prendere il sopravvento: siamo asserviti alla tecnologia e la nostra vita è strutturata in base all’industria e all’economia. Il sistema industriale è intrinsecamente gerarchico, impone decisioni che calano dall’alto, richiede, per funzionare, la militarizzazione della società. Nell’aver aderito a questo sistema economico risiede l’errore non solo della società capitalistica ma anche del socialismo reale. Il filosofo Ivan Illich già smascherava l’assurdità di tutto ciò negli anni ’70, quando calcolava che, considerando le ore perse nel traffico, le ore lavorate per pagare le rate, la benzina, l’assicurazione, circa 1/3 della nostra vita la dedichiamo, inconsapevoli, al mantenimento della nostra automobile: da questo punto di vista, è lei, la “macchina” (in senso letterale e metaforico) ad aver preso il controllo.
Quali soluzioni dunque? Tutti accolgono con entusiasmo le ricette del neoletto Presidente USA Obama improntate alla cosiddetta economia verde, nella speranza che “l’ecocapitalismo” salverà il mondo dalla rovina: in realtà, il cuore del problema rimane inalterato, la prospettiva, la “lente” attraverso la quale guardiamo il mondo non è cambiata. L’idea diffusa che sia impossibile oggi tornare indietro, che il cammino intrapreso sia irreversibile, è forse una trappola mentale, un condizionamento talmente forte che per liberarcene siamo chiamati ad un enorme sforzo di autocritica, tale da permetterci di “toglierci gli occhiali”. E’ il processo che Serge Latouche chiama “decolonizzazione dell’immaginario”.
Eppure, il rischio che si corre è quello di limitarsi a “cambiare il colore delle lenti” e sostituire il vecchio modello con uno nuovo, una nuova ricetta unica alla quale uniformarsi. Ed ecco allora che l’unica vera rivoluzione consiste nel passare dalla ricerca di una alternativa possibile alla rivalutazione e riscoperta della miriade di alternative possibili, già esistenti e vitali e in continuo cambiamento, espressione della simbiosi ogni volta unica e irripetibile tra natura e cultura che si verifica a livello locale. La soluzione è lì: nel territorio, nei territori. Ripartire dal territorio significa riscoprirne i valori: il senso del tempo, dei ritmi della natura; il recupero di una cultura della diversità anziché dell’omologazione; la possibilità di ristabilire delle relazioni umane reali, non strumentali; il senso della misura, del limite.
Non ci resta allora che rimboccarci le maniche per andare al di là delle parole (“se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione…”, cantava Gaber), per tradurle in esperienza di vita quotidiana. Esperienze di questo tipo esistono, esiste ad esempio la “Città dell’Utopia”, un Casale rurale miracolosamente salvato dalle speculazioni edilizie della zona della Basilica di San Paolo e oggi gestito dallo SCI (Servizio Civile Internazionale): uno spazio vissuto e fatto vivere dal quartiere, secondo i principi della solidarietà e della condivisione. I cittadini organizzano corsi, momenti di incontro per altri cittadini. Contribuire ad animare questo spazio potrebbe significare per noi passare dalla teoria alla pratica, dalla riflessione all’azione. Sembrava la fine di un ciclo di incontri, ma forse è soltanto l’inizio di un percorso diverso…

*Valentina*

domenica 5 aprile 2009

Secondo incontro: CASCA IL MONDO...TUTTI GIU’ PER TERRA?

Crescita a quale costo? La finanza che non porta sviluppo
24 MARZO 2009
Relatori: Andrea Baranes (Campagna per la Riforma della Banca Mondiale/ATTAC Italia);
Elena Gerebizza (Campagna per la Riforma della Banca Mondiale);
Marco Bersani (ATTAC Italia).

Ci incontriamo oggi per la seconda volta nell’ambito del ciclo di seminari organizzati dai gruppi romani di Mani Tese e ATTAC sul tema della risorsa “terra”.
Il primo incontro è stato dedicato alla terra come fattore di produzione: nella ricerca delle cause della crisi alimentare globale si è giunti al confronto tra due modelli agricoli profondamente differenti e incompatibili, l’agribusiness e l’agricoltura orientata all’export da una parte e l’agricoltura di sussistenza in un’ottica di raggiungimento della sovranità alimentare dall’altra.
L’utilizzo della terra da parte degli esseri umani, quindi, lungi dall’essere qualcosa di “naturale”, è sempre un atto intrinsecamente “politico” e presuppone la scelta, anche se a volte obbligata a volte quasi inconsapevole, di un modello di sviluppo preciso.
In particolare, Andrea Baranes decide di affrontare una questione assolutamente centrale: la finanziarizzazione dell’economia, che caratterizza il modello dominante attualmente. A partire dagli anni ’70, infatti, è diventato sempre più profittevole investire nella finanza piuttosto che nell’economia reale, e si è avviato un processo di spostamento dei redditi dal lavoro al capitale, che in Italia ad esempio è stato particolarmente evidente (8 punti percentuali di PIL, circa 120 miliardi, dagli inizi degli anni ’90 ad oggi). Ciò fa sì che si ponga un lampante problema di ingiustizia redistributiva: se “i soldi si fanno con i soldi”, chi è ricco diventa sempre più ricco mentre chi è povero affonda sempre di più nelle pastoie della povertà. La falsa soluzione è allora, per assurdo, il ricorso all’indebitamento: l’esplosione della finanza diventa così al tempo stesso causa e conseguenza della crisi. Mentre in un Paese come l’Italia ad aumentare è stato soprattutto il debito pubblico, negli Stati Uniti il debito è principalmente dei privati, delle famiglie. Un debito, quello USA, pari ad una volta e mezzo il PIL, che tradotto significa “spendere oggi quello che guadagnerò tra un anno e mezzo”, ovvero vivere ben al di sopra delle proprie possibilità. La crisi dei mutui subprime, concessi ai clienti definiti in gergo finanziario NINJA (No Income No Job No Assets) incapaci di fornire qualsivoglia garanzia, rappresenta quindi la punta dell’iceberg, la degenerazione di un sistema profondamente malato, che già porta in sé i germi della crisi.
La finanza oltre ad espandersi verticalmente è cresciuta orizzontalmente, fino ad invadere e pervadere il campo dei diritti e dei beni comuni: pensiamo all’acqua, ai Fondi Pensioni in mano ai mercati, alle società finanziarie specializzate che stanno iniziando, soprattutto in Asia, ad acquistare il diritto a produrre un determinato prodotto agricolo, salvo poi riservarsi la possibilità di non produrre in base all’andamento dei mercati, o nella volontà di influenzare i mercati stessi.
Abbiamo iniziato parlando di finanziariazzazione dell’economia ma appare chiaro che questo sia solo una parte del problema: a subire il processo di finanziarizzazione è, oggi, la vita stessa.

Da un certo punto di vista, la crisi attuale è così profonda perché è difficile oggi tracciare confini netti tra l’economia reale e l’economia finanziaria. Lo stesso fenomeno dello spostamento dei redditi dal lavoro al capitale trova la sua causa ultima nel ricorso all’indebitamento da parte della popolazione: se il salario, diretto o indiretto (cioè i servizi), non è più sufficiente ecco allora apparire i fondi pensione e la possibilità di indebitarsi per qualsiasi cosa. E’ nell’economia reale, quindi, che nascono le premesse per la finanziarizzazione dell’economia.
E’ questa la posizione di Marco Bersani, che mette in discussione radicale il modello neo-liberista che è all’origine della crisi. Dobbiamo sovvertire lo spazio-tempo liberista, in cui la dimensione spaziale è illimitata (tutto il mondo è mercato) e l’orizzonte temporale è rappresentato dall’indice di borsa di domani, per ricentrarci sullo spazio locale ma nei tempi necessariamente lunghi della tutela dei beni comuni. Ed eccoci quindi arrivati al cuore del problema: il mondo oggi è diviso in due, da una parte i poveri, che sono talmente poveri da non essere in grado di consumare, e dall’altra i ricchi, il cui mercato è però in via di saturazione. La nuova frontiera del liberismo è quindi la mercificazione dei beni comuni: strategia di mercato macabramente geniale e di sicuro successo, dal momento che dei beni comuni abbiamo tutti bisogno per vivere e non occorre “convincerci” a consumare e comprare attraverso dispendiose campagne pubblicitarie. La nostra vita è diventata il mercato. Eppure proprio la profondità della crisi può tradursi in un’opportunità di cambiamento, se attraverso un processo partecipato e condiviso concentriamo la riflessione sui beni comuni, innanzitutto quelli naturali, riconducibili ai quattro elementi di memoria pre-socratica: aria, acqua, terra e fuoco, ovvero in termini moderni aria, acqua, territorio/mobilità ed energia. I beni comuni naturali e sociali (salute, abitazione, istruzione, previdenza e sicurezza sociale, comunicazione, conoscenza, cultura) devono essere sottratti al mercato, andando oltre il binomio proprietà pubblica/proprietà privata e introducendo la fondamentale categoria di proprietà sociale. Ciò significa lavorare insieme per costruire un modello diverso in cui la gestione dei beni comuni sia affidata al pubblico, ma la loro proprietà resti di tutti. Anche se viviamo uno vicino all’altro, in una grande città come in un piccolo paese, senza beni comuni siamo individui singoli e separati. I beni comuni sono il collante stesso della società, sono ciò che ci rende una comunità. Nel passaggio quindi da una fase di consumo critico ad una fase di produzione critica, ancora una volta la questione fondo è di natura politica: una questione di partecipazione, di condivisione, in ultima analisi, di democrazia.

A questo punto sorge quasi spontaneo chiedersi quale sia il ruolo giocato in questo contesto dalla comunità internazionale e dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali in particolare.
Elena Gerebizza si concentra soprattutto sulla Banca Mondiale (BM), la principale banca multilaterale del mondo, con un budget di circa 40 miliardi di dollari. La BM è un’istituzione pubblica, al cui tavolo siedono quindi i governi dei paesi membri, che concede prestiti tanto al settore pubblico (ovvero ai governi dei paesi poveri o emergenti) quanto al settore privato (grandi corporations multinazionali soprattutto). Nel primo caso i tassi d’interesse applicati sono molto bassi, a volte i prestiti sono a fondo perduto, e proprio per questo storicamente i paesi più poveri in assoluto, come quelli africani, sono sempre stati i più dipendenti dall’aiuto della banca.
Nella realtà dei fatti, il ruolo della BM va ben al di là della concessione di prestiti ai governi dei paesi in difficoltà. Pensiamo ad esempio al ruolo di “catalizzatore degli investimenti” che la BM inevitabilmente svolge: concedendo un prestito ad un paese, la banca lancia un segnale positivo di fiducia agli altri prestatori (pubblici o privati) riguardo all’affidabilità di quel paese. Da non sottovalutare è infine il ruolo di policy advisor che la banca ha sempre svolto e continua a svolgere: una funzione di “consulenza” ai governi riguardo alle politiche da adottare per innescare lo sviluppo.
Nonostante la banca sia un’istituzione enorme, che può contare su migliaia di dipendenti, alla prova dei fatti la scelta finale è sempre caduta sulla ricetta unica, prefabbricata e dogmatica secondo cui la crescita porta sviluppo (secondo la teoria del trickle down, ovvero dello “sgocciolamento”: i benefici della crescita, prima o poi, raggiungeranno tutte le fasce della popolazione). Ciò ha significato trascurare la questione della distribuzione del reddito, con la conseguenza che i paesi che hanno seguito pedissequamente le prescrizioni della banca sono oggi i più vulnerabili, caratterizzati da una sperequazione dei redditi (ovvero la forbice tra ricchi e poveri) in costante aumento. Il paradigma di sviluppo fatto proprio dalla BM negli ultimi 25 anni, inoltre, è basato sulle infrastrutture, soprattutto nel settore energetico (costruzione di oleodotti, gasdotti, grandi dighe): un modello orientato all’export e foriero di impatti negativi sul territorio, tanto a livello ambientale quanto sociale. Da sempre la banca considera il coinvolgimento del settore privato come un pilastro imprescindibile per lo sviluppo dei paesi del Sud del mondo, continuando a sostenere lo strumento delle partnership pubblico-privato, che si sono invece rivelate un fallimento tanto nel Nord quanto nel Sud, ad esempio nella gestione di un bene comune come l’acqua o nella fornitura di elettricità. I soggetti privati non avranno interesse ad effettuare investimenti non remunerativi anche se utili alla comunità, come la costruzione di nuove infrastrutture o il collegamento alla rete di famiglie e popolazioni che vivono isolate, lontano dai centri abitati.
A tutto ciò si aggiunge il ruolo di primo piano che la banca si sta ritagliando nella lotta al cambiamento climatico: il G20 di Londra probabilmente si concluderà con un impegno dei 20 grandi della terra ad aumentare la propria quota per la banca, nell’obiettivo primario di affrontare in questa sede la questione “clima”, nonostante la banca sia il principale finanziatore di mega-progetti nel settore estrattivo e delle grandi dighe (considerati come investimenti nelle energie rinnovabili). La BM gestisce dei fondi fiduciari, finanziati dai grandi del pianeta, il cui obiettivo dichiarato è tutelare i deboli paesi del Sud dal punto di vista ambientale: in realtà, gli impatti negativi di questa politica si stanno già rivelando in tutta la loro drammaticità. Nel mercato dei crediti di carbonio, ad esempio, rientrano anche le foreste: ciò significa che un paese può vendere parti di foresta a soggetti privati, il cui compito dovrebbe essere quello di salvaguardarle. Tuttavia, in questi territori spesso vivono comunità indigene, del tutto escluse dal processo decisionale e costrette ad abbandonare la propria terra. Tutto ciò, mentre in sede ONU procede a fatica il farraginoso processo per la creazione di un Fondo multilaterale specificatamente rivolto ad affrontare le questioni ambientali.
In conclusione, appare chiaro come non si possa prescindere oggi da una riforma radicale di questa istituzione, mettendone in discussione le politiche e il paradigma di sviluppo che ne è alla base. Forse, una soluzione possibile sarebbe far rientrare la banca nel suo mandato originario: una banca internazionale che fornisce prestiti ai paesi in difficoltà, e non uno strumento di imposizione di condizioni eminentemente politiche.

*Valentina*