Terra è libertà. Appartenenza e inclusione territoriale.
1 APRILE 2009
Relatore: Aldo Zanchetta (Fondazione Neno Zanchetta)
Dopo aver guardato alla terra come fattore di produzione (incontro del 17 marzo 2009: Il cibo che non sfama: scarsità o ingiustizia? Chi ingrassa con la crisi alimentare) e alla terra come spazio fisico sul quale insistono modelli di sviluppo aggressivi e fallimentari (incontro del 24 marzo 2009: Crescita a quale costo? La finanza che non porta sviluppo), consideriamo oggi la terra in una prospettiva diversa: la terra come territorio. Un tentativo, il nostro, di superare la concezione “strumentale” della risorsa per riflettere sulle complesse relazioni che ci legano ai luoghi nei quali viviamo.
L’uomo si sta rendendo responsabile della creazione di rischi globali di portata più che drammatica. La crisi economica e quella ambientale, due facce della stessa medaglia, sembrerebbero porre in maniera non più rimandabile la questione della limitatezza e della salvaguardia delle risorse del pianeta, eppure l’euforia produttiva e consumistica non frena la sua folle corsa. Prendendo in prestito ad un’ecologista inglese questa suggestiva immagine, si potrebbe pensare alla terra come ad una capsula spaziale, con i suoi abitanti, le sue riserve di cibo, acqua, il problema dello smaltimento dei rifiuti: è evidente che le risorse devono essere gestite in modo razionale, tutelate e non sovrasfruttate. Il bacino acquifero Guaranì, la terza maggiore riserva di acqua dolce del mondo, inizia a presentare problemi di inquinamento, in alcune zone del mondo gli uomini e le donne si riproducono con sempre maggiore difficoltà, abbiamo costruito armi atomiche in grado di sterminare 50 volte l’umanità intera, le radiazioni nucleari sono causa di malformazioni e morte in molti luoghi del pianeta…in questo contesto, non è solo una provocazione domandarsi se gli esseri umani stiano andando incontro all’autodistruzione. Se l’uomo scomparisse dalla faccia della terra? E se ciò accadesse nei prossimi 100 anni?
Trovarci oggi sull’orlo del baratro rappresenta forse un’opportunità unica e straordinaria di cambiamento radicale: dovremmo mettere in discussione la nostra stessa mentalità, il modo di concepire la nostra presenza sul pianeta. L’economia e l’industria nella fattispecie, che dovrebbero contribuire a migliorare la qualità della vita in quanto “sistemi” creati dall’uomo, hanno finito per prendere il sopravvento: siamo asserviti alla tecnologia e la nostra vita è strutturata in base all’industria e all’economia. Il sistema industriale è intrinsecamente gerarchico, impone decisioni che calano dall’alto, richiede, per funzionare, la militarizzazione della società. Nell’aver aderito a questo sistema economico risiede l’errore non solo della società capitalistica ma anche del socialismo reale. Il filosofo Ivan Illich già smascherava l’assurdità di tutto ciò negli anni ’70, quando calcolava che, considerando le ore perse nel traffico, le ore lavorate per pagare le rate, la benzina, l’assicurazione, circa 1/3 della nostra vita la dedichiamo, inconsapevoli, al mantenimento della nostra automobile: da questo punto di vista, è lei, la “macchina” (in senso letterale e metaforico) ad aver preso il controllo.
Quali soluzioni dunque? Tutti accolgono con entusiasmo le ricette del neoletto Presidente USA Obama improntate alla cosiddetta economia verde, nella speranza che “l’ecocapitalismo” salverà il mondo dalla rovina: in realtà, il cuore del problema rimane inalterato, la prospettiva, la “lente” attraverso la quale guardiamo il mondo non è cambiata. L’idea diffusa che sia impossibile oggi tornare indietro, che il cammino intrapreso sia irreversibile, è forse una trappola mentale, un condizionamento talmente forte che per liberarcene siamo chiamati ad un enorme sforzo di autocritica, tale da permetterci di “toglierci gli occhiali”. E’ il processo che Serge Latouche chiama “decolonizzazione dell’immaginario”.
Eppure, il rischio che si corre è quello di limitarsi a “cambiare il colore delle lenti” e sostituire il vecchio modello con uno nuovo, una nuova ricetta unica alla quale uniformarsi. Ed ecco allora che l’unica vera rivoluzione consiste nel passare dalla ricerca di una alternativa possibile alla rivalutazione e riscoperta della miriade di alternative possibili, già esistenti e vitali e in continuo cambiamento, espressione della simbiosi ogni volta unica e irripetibile tra natura e cultura che si verifica a livello locale. La soluzione è lì: nel territorio, nei territori. Ripartire dal territorio significa riscoprirne i valori: il senso del tempo, dei ritmi della natura; il recupero di una cultura della diversità anziché dell’omologazione; la possibilità di ristabilire delle relazioni umane reali, non strumentali; il senso della misura, del limite.
Non ci resta allora che rimboccarci le maniche per andare al di là delle parole (“se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione…”, cantava Gaber), per tradurle in esperienza di vita quotidiana. Esperienze di questo tipo esistono, esiste ad esempio la “Città dell’Utopia”, un Casale rurale miracolosamente salvato dalle speculazioni edilizie della zona della Basilica di San Paolo e oggi gestito dallo SCI (Servizio Civile Internazionale): uno spazio vissuto e fatto vivere dal quartiere, secondo i principi della solidarietà e della condivisione. I cittadini organizzano corsi, momenti di incontro per altri cittadini. Contribuire ad animare questo spazio potrebbe significare per noi passare dalla teoria alla pratica, dalla riflessione all’azione. Sembrava la fine di un ciclo di incontri, ma forse è soltanto l’inizio di un percorso diverso…
mercoledì 8 aprile 2009
Terzo incontro: CASCA IL MONDO...TUTTI GIU’ PER TERRA?
*Valentina*
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